
Il progressivo proliferare di immagini violente nell’era della comunicazione globale ha dato vita, e continua a farlo, ad una serie di programmi di divulgazione e di intrattenimento che raccontano e mostrano direttamente ciò che accade prima, durante e dopo crimini efferati ed avvenimenti d’inaudita violenza.
Gli italiani, e non solo, paiono essere morbosamente attratti dal gusto del macabro che viene soddisfatto attraverso la diffusione di notizie corredate da immagini cruente, report di autopsie ed analisi psicologiche volte a trovare una chiave di lettura, peraltro non sempre chiara ed esaustiva, dei meccanismi mentali dei soggetti sospettati d’essere gli autori dei crimini oggetto d’indagine.
Questo ha dato vita ad un aumento esponenziale sul piccolo schermo di crime-serial e approfondimenti, in seconda serata, di avvenimenti legati a tali temi e, sui quotidiani, titolazioni sempre più incisive che, quanto più riescono a scendere nello specifico e a fornire particolari dell’accaduto, tanto più incrementano share e vendite.
Ma cosa succede quando le fredde ed intangibili immagini televisive diventano un caldo scatto fotografico? Quando i protagonisti non sono attori su un set costruito, ma sangue, corpo e fluidi corporali divengono i veri e caldi protagonisti di una scena che lascia gli occhi degli spettatori increduli e costernati? Come viene vissuta, dagli appassionati di serie tv cult come CSI, la vista di fiotti di sangue reale che scorrono su un corpo vivo che ti osserva e cerca stima, amore, commiserazione o forse solo fama?
Il PAC di Milano (Padiglione di Arte Contemporanea) ha ospitato nei mesi scorsi una mostra di un artista poliedrico che vive il proprio corpo come totale elemento di comunicazione con il mondo. Quello di Franko B è un corpo completo, nudo, senza vergogna e che si mostra nel suo stato esteriore ed interiore comunicando la piena ostilità verso tutti quei tabù che tranciano la libertà della visione del mondo e di noi stessi.
Nato a Milano, ma residente da oltre vent’anni a Londra, Franko B ha intrapreso dal 1990 un percorso artistico legato alla sempre più nota branca della Body Art ed è, ancora oggi, un innovatore ed un precursore dello sfruttamento dei fluidi corporali, elementi del nostro corpo nascosti e di cui spesso ci si vergogna e si ha timore di mostrare “…Sono stato educato a vergognarmi del mio corpo. Uso sangue, urina e merda come metafora perché è questo ciò che sono […]”.
I suoi spettacoli e le immagini fotografiche che li documentano sono vere e proprie visualizzazioni di laboratorio; attorno a sé tutto è bianco, il corpo stesso è dipinto di bianco e il rosso del sangue diventa protagonista: aghi nelle vene delle braccia e sangue che scorre fino al pavimento; passerelle candide su cui si erge un corpo nudo, del medesimo colore, macchiato di sangue. Il corpo come tela di se stesso.
“Il mio lavoro mette a fuoco il viscerale, dove il corpo diventa una tela, un luogo non meditato per la rappresentazione del sacro, il bello, l’intangibile, l’innominabile, e anche del dolore, l’amore, l’odio, la perdita, il potere e le paure della condizione umana.” Dichiara Franko B.
Il bianco, immagine di purezza, visione di una tela pronta a divenire tavolo di lavoro, tavolozza sulla quale esprimere se stessi con colori e azioni, non avrebbe così tanta forza espressiva senza il suo contrario: caos, forza, buio, tristezza e morte, questi i principali valori del più scuro dei colori, antagonista del paradiso, amico e alleato dell’inferno; per Franko B il nero è un diverso modo di guardare dentro ad un corpo umano e non. Se il bianco tira a sé ciò che di vitale è nascosto dentro, il nero pare estrapolare tutti i sentimenti ad esso correlati: la paura, l’ansia, le tenebre che incombono e calano su ognuno in situazioni difficili e angoscianti.
Tratti ruvidi e decisi di acrilico nero disegnano i contorni di immagini stagliate su un fondo altrettanto cupo. Con questi tratti si può percepire il dolore e l’angoscia che si cela dietro un viso, dietro un mobile o dentro una stanza. E dopo l’agonia la morte. La morte che non passa, che resta ed impregna della sua essenza intangibile ogni oggetto o sensazione.
Camminando nelle sale del PAC il senso di oppressione è forte e l’incoercibile angoscia che cresce dentro guardando le sue opere maggiori, diventa così forte e pressante da far mancare l’aria al visitatore: un’esplosione di sentimenti che passano dallo sbigottimento alla curiosità, dall’incredulità all’estasi. La mostra diviene esperienza di vita, un luogo reso reale dalle immagini che lo arredano e che, ad ogni passo compiuto, danno vita ad un nuovo sentimento per lo spettatore che non vive la mostra come inerme entità, ma, al contrario, si sente attore e protagonista di una visione nuova di se stesso e del mondo. Una visione dell’interiorità umana non minata dalla lettura psicologica e psicoanalitica, oggi tanto in voga, una rivalutazione del contenuto fisico e metafisico di ogni essere vivente anche nel suo essere morto dove i colori della vita e della morte si intrecciano e si compenetrano.
Una lettura dell’interiorità completa e inusuale ad opera di un illustre artista che, ancora una volta, ha trovato la miglior espressione della sua arte lontano dal paese di nascita dove, troppo spesso, il richiamo televisivo di genere è così forte da far dimenticare quanto l’aggirarsi tra le sale di uno spazio espositivo, come quello allestito da Franco B, possa essere esperienza significativa e profondamente vivificante.
Veronica Bernardi per cielidiparole.com