
Il sociologo Zygmunt Bauman sostiene che facciamo esperienza degli estranei solo come apparenze, in modo che ciò che si vede esaurisce ciò che essi sono.
Come è triste pensare che non si sia più in grado di capire quanto le apparenze falsino la realtà che ci circonda! Invece di essere interpretata quale fattore aggiuntivo d’osservazioni oggettive fatte a monte, l’apparenza è diventata una realtà nella quale ci si sente comodi senza mettere in dubbio la sua correttezza: la valutazione sensibile di ciò che ci circonda diventa l’innaturale realtà in cui ci crogioliamo.
Sembra che quanto più la società diventi “social” tanto più si abbia la tendenza a lasciarsi trasportare dalle apparenze come se questo diventasse una regola di buona condotta. Tutto attorno a noi ci suggerisce subdolamente che l’apparenza altro non è che la miglior esplicitazione della realtà e così ne diventiamo impregnati. Ognuno di noi spesso è portato a concentrarsi nell’arte dell’apparire piuttosto che limitarsi ad essere. Colloqui, eventi sociali, relazioni, cercare di far parte di una cerchia di persone che si ritiene essere socialmente “adatta” sono tutti momenti durante i quali si cerca di allontanare i propri limiti, a nascondere le vere passioni se non conformi o mitigare gli usi di una vita, ma la quotidianità di questi comportamenti è capace di farci perdere il senso di chi siamo realmente, trovandoci a fare e dire cose che sono lontane anni luce da quello che è veramente dentro di noi. Ci si dovrebbe chiedere più spesso, guardandosi dentro con sincerità, se veramente siamo la persona che vorremmo essere o se invece siamo rimasti invischiati anche noi nella nostra foga di apparire. Troppe volte capita che si parli di noi stessi come del ruolo che si ricopre al lavoro, o per i beni che si possiedono o per il luogo di nascita o di residenza: sembra proprio essersi sopita la capacità di conoscere e comprendere noi stessi e gli altri prima di poter decidere se ciò tutto questo ci appaghi e ci renda felici. Il mondo è talmente veloce che pensiamo di poter trattare tutti come un tweet: di vitale importanza solo finchè non lo si è postato. Tutto si esaurisce al primo sguardo come se questo potesse darci da solo tutti gli elementi per scegliere e sapere cosa è giusto o cosa è sbagliato. Ma siamo veramente in grado di catalogare ogni persona solo guardando distrattamente l’abito che indossa o la pettinatura che porta?
Credo che la risposta sia negativa, perché, una volta catalogata la realtà in piccoli ridicoli schemi, ecco che basta un gesto, un sorriso, un odore per cambiare completamente l’opinione che ci siamo fatti, a ribaltare le carte in tavola e farci rimettere tutto in discussione. Questo dovrebbe farci capire quando l’apparenza sia labile e instabile.
Soggettivo ed oggettivo dovrebbero tornare a fondersi, dovremmo essere analisti capaci ed esperti olistici allo stesso tempo per fare in modo che ragione e sensazioni collaborino e facciano in modo di limitare l’importanza dell’apparenza: ma cambiare è difficile. Dovremmo essere in grado di chiederci se le persone attorno a noi ci accettano per quello che siamo e per poterlo fare è indispensabile conoscere se stessi nel profondo, senza maschere. Non dovremmo avere paura di essere rifiutati o considerati diversi: nel mondo che viviamo il diverso non esiste, esiste solo il non uguale. E lo stesso è per le situazioni in cui ci troviamo spesso invischiati, se queste situazioni ci fanno sentire a disagio e fuori luogo non è necessario fingere e sforzarsi per poter essere accettati da chi si accontenta di vivere ciò che non siamo.
Forse dovremmo iniziare a pensare all’apparenza come la porta che ci può svelare paesaggi mozzafiato o strapiombi pericolosi. Ma per sapere cosa si nasconde dietro quella porta è necessario aprirla e guardare oltre.
D’apparenza non si muore, ma d’apparenza neppure si vive.
Foto e articolo di Veronica Bernardi