
Sociologi e psicologi ci ricordano di continuo quanto l’adolescenza sia difficile. Impuntata ad essere l’età dell’affermazione personale, diventano quotidiane le combutte con i genitori, gli amori difficili, l’indolenza delle ore passate a scuola, compiti e doveri da cui sfuggire nella speranza di poter avere un po’ di tempo libero da dedicare alle indispensabili attività sociali. Solo una volta usciti da questi anni di frastuono emotivo si scopre che l’adolescenza non è il più duro dei periodi che si dovranno affrontare, ma è solo il primo. Nessuno vuole togliere all’adolescienza il suo ruolo di apriporte verso la maturità: in quegli anni sicuramente avviene un processo di affermazione molto aggressivo, ci si ribella al rigore delle regole, si pensa solo al presente, senza chiedersi mai come sarà il domani, ma proprio per questo non ci si può immaginare che nuove difficoltà faranno capolino ogni giorno proprio dopo aver raggiunto gli agognati traguardi: più indipendenza è sinonimo di più responsabilità.
Chi, come me, è nato attorno alla fine degli anni ‘70 o inizi ’80 è cresciuto con nonni che hanno raccontato con orgoglio e amarezza della guerra, della ricostruzione e di quando le lire non dovevano avere 3 zeri per valere qualcosa. Mamma e papà, che hanno ereditato la ricostruzione, ci ricordano di aver vissuto un’infanzia più o meno felice ma non certo austera, raccontano di come si divertivano con poco e cercano d’insegnarci ad essere gli uomini e le donne di domani con i loro sani principi e i loro ricordi.
E poi arriviamo noi, successori di una generazione che a 30 anni ancora aveva timore ad uscire dal guscio, incapace o quasi di avere opinioni personali e soggiogata dall’arrivo impetuoso del web, ci siamo trovati di punto in bianco scaraventati in un mondo veloce in cui nessuno era pronto a spiegarci quali esperienze sarebbero state giuste e quali sbagliate.
Noi a cui il nuovo millennio ha regalato la maggiore età, l’euro, la caduta delle torri gemelle e millennium bug, noi che nonostante questo, ancora reduci dalla nostra adolescenza (che poi quando finisce l’adolescenza non l’abbiamo ancora capito), siamo pieni di grandi ideologie, carichi di voglia di cambiare un mondo che per noi è rimasto fermo agli anni ’80. Così ci diamo un pacca sulle spalle e capiamo che è il momento di fare grandi cose: prepariamo il fagotto con dentro tutte le nostre conquiste, i nostri sogni e il nostro bisogno di evasione. Evasione, ma da dove volevamo evadere se fino a quel momento non avevamo visto neppure il giardino di casa? Ma questo ce lo saremmo domandati più avanti, perché in quel momento l’adrenalina e la voglia di scappare dettavano legge. E così ecco che arriva l’iscrizione all’università che sancisce la più grande conquista, seconda solo forse al motorino ma che a differenza di quest’ultimo è vissuta con orgoglio. Ma può capitare che l’università giusta non sia nella propria città, e allora è necessario rendere quel fagotto un po’ più capiente, bisogna far spazio anche alla paura e alla solitudine, ma nulla può scoraggiarci perché siamo proiettati verso il mondo, per dimostrare a tutti che noi ce la possiamo fare che è il momento di essere indipendenti, adulti e che non abbiamo più bisogno di nessuno.
Ed ecco che abbiamo un appartamento, o meglio abbiamo un posto dove dormire, dato che nella maggior parte dei casi si tratta di una stanza doppia 3×5 in un appartamento condiviso con sconosciuti! Però abbiamo le chiavi di casa e nessuno che controlla gli orari. A questo punto basterà fare conoscenze per avere nuovi amici con cui organizzare uscite, feste e serate.
In un batter d’occhio ci sentiamo indipendenti, ma ora con la nostra nuova e bramata indipendenza cosa si fa? Si fa tutto quello che non si poteva fare a casa certo, ma ci sono anche obblighi e doveri e senza neppure capire come entriamo in una nuova routine simile a quella appena finita, ma ora siamo un po’ più indipendenti ed è facile confondere l’indipendenza con la solitudine. Ripensiamo a quel rapporto tanto conflittuale coi nostri genitori e neghiamo a noi stessi che loro sono indispensabili per mille e una ragione, neghiamo o forse non ce ne rendiamo conto fino a quando non abbiamo bisogno di loro. Ci aspettiamo siano disponibili ogni qual volta abbiamo un problema, o abbiamo bisogno di danaro, ogni qual volta non sappiamo come comportarci davanti ad una difficoltà e se cercano di confermare l’indipendenza negando il loro supporto, allora diventano ai nostri occhi crudeli e snaturati e la lotta con loro non ha mai fine.
Ma credo che ad un certo punto per tutti gli indipendenti ribelli arrivi un momento in cui ci si accorge che loro non sono solo parenti a distanza, non sono solo due bastoni nelle ruote della nostra esistenza. Quando arriva il momento in cui si chiarisce nella mente il motivo di ogni litigio, in cui i “no” ricevuti iniziano a essere gli stessi che diremmo noi, in cui ogni battaglia è finita in pareggio senza vincitori ne vinti, allora è il momento in cui si inizia a prendere coscienza di essere diventati veramente indipendenti. E allora ci si accorge di quanto bene si provi per quei genitori lontani, di quanto siano importanti e di quanto siano sempre stati presenti e indispensabili fino a quel momento.
Forse sono stati i soli che nel vederci star male ci hanno dato il consiglio più sincero o magari sono stati in silenzio nel caos dei consigli sbagliati, forse sono stati i soli che hanno sofferto veramente quando siamo stai male e che gioivano dei nostri successi senza farcelo sapere, ma certamente sono i soli che, anche se sono stati respinti mille volte, ci sono sempre stati accanto senza farsi vedere, che ci hanno dato la mano per rialzarci nei momenti duri e che sono pronti a rifare lo stesso in ogni momento.
Quando si arriva a capire questo si può sentire di essere realmente indipendenti: liberi di una guerra interiore che ha sempre fatto star male, liberi di chiedere e dare aiuto per il solo amore che ci lega a loro.
Foto e articolo di Veronica Bernardi